mercoledì 29 aprile 2020

L’incerta correlazione tra inquinamento atmosferico e l’epidemia da COVID-19


Concentrazioni di PM10 dal 2005 al 2008, Fonte: EEA.
Può esistere una correlazione tra la diffusione dell’infezione da SARS-CoV2 e le aree ad elevato livello di inquinamento atmosferico? La domanda è più che mai attuale e tuttora al vaglio di diverse ricerche scientifiche. La necessità di portare maggiore chiarezza in tale ambito ha infatti sollecitato diversi gruppi di studiosi a collaborare per esaminare il problema e le possibili correlazioni.
Premesso che si tratta di una infezione virale sottoposta a meccanismi di trasmissione sicuramente diversi da quelli generalmente studiati nel settore dell’inquinamento atmosferico, in Italia l’ipotesi di un’associazione è stata avanzata in virtù del fatto che aree come la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, dove il virus ha presentato la maggiore diffusione, fanno registrare generalmente le maggiori concentrazioni degli inquinanti atmosferici misurati e controllati secondo quanto indicato e prescritto dalla legislazione di settore (DLgs 155/2010).
Tuttavia, se è vero che la diffusione del virus si è presentata attraverso focolai circoscritti all’interno di zone della Pianura Padana sottoposte a valori di inquinamento atmosferico elevati e piuttosto omogenei, è anche vero che altre aree a forte inquinamento atmosferico, anche se prossime, sono rimaste inizialmente escluse e interessate, solo successivamente, con minor forza dalla contaminazione del virus. Si osserva inoltre, che a seguito delle disposizioni governative, la ridotta mobilità delle persone e la chiusura di molte attività produttive hanno portato ad una progressiva e significativa riduzione dei livelli di inquinamento dell’aria (PM10, PM2,5, NO2, benzene). Va infine notato che le aree dove il virus ha evidenziato il suo più elevato impatto, sono le aree sia ad elevata densità di popolazione sia a più alta produttività del Paese. In questi territori sono presenti il maggior numero di aziende con vocazione e crescita internazionale che hanno continui e frequenti rapporti con paesi stranieri (in particolare Stati Uniti, Cina e Federazione Russa), con conseguente alta mobilità dei lavoratori. Infatti, molti approfondimenti epidemiologici in corso evidenziano proprio la componente legata ai rapporti di lavoro internazionali con il conseguente contagio diretto tra persone, oltre all’iniziale diffusione del contagio in strutture sanitarie (ospedaliere e RSA) che ha agito quale forte moltiplicatore dell’infezione, quando non si aveva notizia dell’avvenuto ingresso del virus sul territorio italiano.
In sintesi, la complessità del fenomeno, insieme alla parziale conoscenza di alcuni fattori che possono giocare o aver giocato un ruolo nella trasmissione e diffusione dell’infezione SARS-CoV2, rendono al momento molto incerta una valutazione di associazione diretta tra elevati livelli di inquinamento atmosferico e la diffusione dell’epidemia COVID-19, o del suo ruolo di amplificazione dell’infezione. Uno studio potrà essere svolto con il corretto approccio scientifico, solo quando l’epidemia e l’emergenza saranno terminate e potranno essere disponibili tutte le conoscenze sulle variabili/fattori utili ad analizzare il fenomeno, effettuando anche un’analisi comparativa su scala più ampia quale quella europea e internazionale. In tale contesto, un elemento di sicuro approfondimento potrà essere rappresentato dal ruolo dell’ambiente indoor/outdoor nel determinare lo stato di salute della popolazione, in particolare quella residente nelle aree urbane, e come questo possa aver influito sulla gravità degli esiti dell’infezione da SARS-CoV2. L’analisi dei decessi su un ampio campione di casi ha mostrato come la mortalità per COVID-19 sia stata elevata in soggetti che già presentavano una o più patologie (malattie respiratorie, cardiocircolatorie, obesità, diabete, malattie renali, ecc.), sulle quali la qualità ambientale indoor e outdoor e gli stili di vita, in ambiente urbano, possono aver avuto un ruolo.
Lo studio condotto dall’Università di Harvard è di sicuro interesse, ma si basa su indicazioni parziali e presenta ampie incertezze come gli autori stessi descrivono (come ad esempio, la modalità di conteggio dei decessi per COVID-19 e la stima delle concentrazioni di PM2,5 sul territorio degli USA basata sull’applicazione di una modellistica che necessita di aggiustamenti perché legata alla distribuzione spaziale delle postazioni di misura dell’inquinamento atmosferico).
Una posizione, questa, condivisa da gran parte della comunità scientifica italiana, come espresso nella posizione dello Steering Committee del progetto CCM RIAS.
La letteratura scientifica in materia
L’esposizione ad inquinamento atmosferico indoor e outdoor ed in particolare al materiale particellare PM (PM10, PM2,5), agli ossidi di azoto (NO e NO2), nonché all’ozono (O3), può determinare un insieme di effetti sanitari avversi ampiamente descritti nella letteratura scientifica accreditata. La Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) stima nel 2016, globalmente, circa 7 milioni di morti premature all’anno, con il 91% di queste a carico dei paesi a basso-medio reddito e relative alle popolazioni delle aree del sud asiatico, dell’area sub sahariana e dell’America latina. Per la popolazione europea sono state stimate circa 550.000 morti premature.
Inoltre, la WHO ha dedicato una particolare attenzione agli effetti sanitari dovuti ai livelli di inquinamento degli ambienti indoor, determinati principalmente dall’uso di combustibili di bassa qualità per il riscaldamento degli ambienti e la preparazione dei cibi, ma anche all’uso di sostanze chimiche per l’igiene personale e la pulizia degli ambienti, sostanze per la profumazione indoor, pitture, vernici, ecc. Questa componente riveste un ruolo rilevante se si considera che la popolazione trascorre la maggior parte del tempo in ambienti indoor (abitazione, scuola, lavoro).

Gli effetti sulla salute
A livello globale, i principali effetti sanitari correlati all’inquinamento dell’aria indoor e outdoor sono relativi all’aumento delle Malattie non trasmissibili-Non Communicable Deseases (NCD), che includono principalmente le malattie croniche del sistema cardiocircolatorio quali le malattie ischemiche del cuore (infarto miocardico, ictus cerebrale), quelle dell’apparato respiratorio, come l’asma, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) che porta ad una maggiore predisposizione alle infezioni respiratorie, e il cancro del polmone per esposizioni sul lungo periodo. Più recentemente all’esposizione cronica all’inquinamento atmosferico e al PM2,5 in particolare si associano patologie quali il diabete, un ritardo nello sviluppo neurologico dei bambini così come effetti neurologici degenerativi nella popolazione adulta/anziana. Gli effetti a breve termine sono supportati da molti studi e riguardano una ridotta capacità polmonare, aggravamento e complicanze dell’asma, e, per l’esposizione durante la gestazione, un basso peso alla nascita del bambino.

I più esposti
L’ampia letteratura scientifica si è anche dedicata ad indagare quale sia la popolazione più suscettibile agli effetti dell’esposizione all’inquinamento atmosferico indoor e outdoor. Le caratteristiche di suscettibilità includono principalmente una predisposizione genetica, fattori socioeconomici, età, durata e intensità dell’esposizione, la presenza di malattie preesistenti, come asma, BPCO e fibrosi cistica. Molti studi evidenziano che i bambini, e più in generale la popolazione di età inferiore ai 14 anni, è la più suscettibile agli effetti sanitari acuti delle infezioni alle basse vie respiratorie.

Le sostanze inquinanti e le sorgenti di emissione
L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) nel 2013 ha definito l’inquinamento atmosferico, il PM in particolare, cancerogeno di classe 1 per l’uomo. Il PM, sia quello emesso direttamente nell’aria, che quello prodotto durante i processi di conversione gas-particelle, è una miscela complessa di inquinanti organici e inorganici, costituito dal materiale carbonioso derivante dai diversi processi di combustione che lo generano (negli ambienti ad intensa urbanizzazione il PM deriva essenzialmente dai veicoli a motore e dagli impianti per la produzione di energia), ma anche da un insieme di altre sostanze particolarmente tossiche per l’uomo (microinquinanti inorganici e organici come: metalli, idrocarburi policiclici aromatici, diossine). La composizione quali/quantitativa del PM varia quindi molto in funzione della tipologia di sorgenti di emissione che lo producono.
Gli effetti sulla salute che ne derivano dipendono perciò non solo dai livelli di concentrazione a cui le popolazioni sono esposte ma anche da molti altri fattori, che includono le sorgenti, le trasformazioni fisiche e chimiche di precursori, il clima, e la specifica situazione locale (orografica e topografica) delle aree urbane e non che influenzano la “qualità” e la composizione del PM.

Le città stanno peggio
Vivere in aree urbane dove l’inquinamento atmosferico è elevato incide sullo stato di salute generale della popolazione, come dimostrano gli studi di numerosi gruppi di ricercatori scientifici nazionali e internazionali.
L’Agenzia Ambientale Europea (EEA) ogni anno produce un report sul Burden of Desease dell’inquinamento atmosferico in Europa in base ai livelli di concentrazione dei singoli inquinanti misurati (PM2,5, NO2 e O3) dalle diverse centraline di monitoraggio dell’aria presenti nei diversi paesi (concentrazioni variabili anche in funzione delle condizioni meteorologiche e del numero e della qualità di funzionalità delle centraline). Nel report 2019 l’EEA ha stimato per l’Italia circa 60.000 morti premature per esposizione a PM2,5. 
A cura di Maria Eleonora Soggiu e Gaetano Settimo del Dip. Ambiente e salute dell’ISS
ISS, 29 aprile 2020.

giovedì 6 febbraio 2020

La diffusione geografica delle frane mortali

Il numero cumulativo di frane per area geografica dal 2004 al 2018 incluso.
Dave Petley ha esaminato la diffusione geografica delle frane in tutto il mondo. I dati che ha raccolto (per oltre 17 anni) sono focalizzati sulle frane che hanno causato decessi; per questo tipo di analisi esclude di solito le frane associate ai terremoti. Quindi, ha elaborato un grafico che mostra il numero cumulativo di frane fatali per area geografica, che copre il periodo da gennaio 2004 a dicembre 2018 compreso. Secondo Petley ci sono molti aspetti interessanti in questi dati. In primo luogo si può osservare che è l'Asia del Sud che ha subito il maggior numero di frane fatali. Ciò è ormai é un dato consolidato, ma solo un decennio fa la gente sosteneva che non era così. In secondo luogo, si verificano perdite davvero significative anche nel Sud Est e nel Sud Ovest dell'Asia, e in misura minore in Sud America. I dati mostrano anche la forte stagionalità in alcune aree, con andamenti graduali piuttosto lineari. Ma c'è anche qualcosa di insolito. I dati del Sud America mostrano una strana tendenza in quanto nel periodo 2009-2012 si è registrato un tasso di frane notevolmente più elevato rispetto ai periodi precedenti e successivi. Tuttavia Petley non é sicuro delle cause. Ciò richiede ulteriori indagini. Fonte: The geographical spread of fatal landslides. 

mercoledì 20 novembre 2019

Il Canaletto fotografò con estrema precisione il livello del mare a Venezia

Fonte: Camuffo & Sturaro (2003)
Fonte: Camuffo & Sturaro (2003)
Fonte: Camuffo & Sturaro (2003)
L'innalzamento del livello del mare relativo (RSL) è una questione cruciale per la salvaguardia di Venezia e dei suoi edifici storici. Il fenomeno degli ultimi tre secoli è stato studiato usando un dato proxy del livello medio del mare: l'altezza del fronte delle alghe sui palazzi. Questo indicatore è stato accuratamente disegnato dal Canaletto e dai suoi allievi nei loro dipinti "fotografici" realizzati con una camera ottica oscura. Infine, sono state confrontate le posizioni dei fronti nel XVIII secolo e nel presente. L'aumento di RSL è dovuto, come sappiamo, a una combinazione di fattori naturali e antropogenici, sia locali che globali, che influenzano il cedimento del terreno. Piccolo dettaglio non tascurabile, nel 1700 siamo quasi al termine della Piccola Era Glaciale. Il NASA Earth Observatory ha rilevato tre intervalli particolarmente freddi: uno a partire dal 1650 circa, un altro verso il 1770 e l'ultimo nel 1850, tutti separati da intervalli di leggero riscaldamento, il periodo più freddo si verificò intorno alla fine del Seicento Bibliografia: Sixty-cm Submersion of Venice Discovered Thanks to Canaletto's Paintings

venerdì 15 novembre 2019

Allagamenti a Venezia, cause antropiche, naturali e possibili scenari

Distribuzione mensile delle maree più alte (+110mm) registrate dal 1872 al 2018. Stagionalità della marea - Comune di Venezia
Variazioni del livello medio mare annuale a Venezia dal 1870 al 2015 - Punta Salute. Variazioni del livello medio mare annuale a Venezia - Punta Salute
Il fenomeno che si é verificato il 12 Novembre 2019, come spiegato dal Centro previsioni maree del Comune di Venezia, "è stato causato dal passaggio di un rapido fronte perturbato (Storm Surge) denominato  'depressione Detle' che ha innescato vento di scirocco nel nord Adriatico associato a bora nella Laguna di Grado e Venezia. La marea ha prolungato la propria permanenza oltre gli orari astronomici per il non previsto e temporaneo orientarsi della provenienza dei venti dai quadranti sud-orientali. "La particolarità di questa ondata di acqua alta sta nel fatto che si sono presentati contemporaneamente tutta una serie di fattori concomitanti: marea particolarmente intensa, venti da sud particolarmente forti e la bassa pressione", ha spiegato ad Agi Gianmaria Sannino, oceanografo e responsabile del Laboratorio di Modellistica Climatica e Impatti dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea). In primo luogo, ha avuto un ruolo di primo piano il forte vento. "Lo storm surge di questi giorni nell’Adriatico, ossia lo spostamento di grosse masse d’acqua dovute al vento (in questo caso lo scirocco) è stato particolarmente intenso tra il 12 e il 13 novembre", ha sottolineato Sannino. «Questi venti eccezionali sono stati generati da una perturbazione che si è verificata nel centro del Mediterraneo, e hanno portato alla creazione di onde elevate non solo nel Sud Italia, ma anche nel Nord Adriatico, cosa particolarmente rara per un mare di questo tipo". In secondo luogo, bisogna fare i conti con l’effetto che si chiama “barometrico inverso”, ossia con il fatto che se sulla zona di Venezia c’è bassa pressione, il livello del mare continua a salire. "Tra il 12 e il 13 novembre, la differenza tra l’effetto della marea normale e questi effetti aggiuntivi, che fanno interagire l’atmosfera con l’oceano, si aggira tra i 40 e i 50 centimetri", ha chiarito Sannino.“Quindi spiegano al Centro previsioni Maree che, "Ad alterare la regolarità della marea astronomica in modo a volte notevole, intervengono fattori meteorologici e tra essi soprattutto il vento e la pressione. Nel caso del Mare Adriatico, bacino lungo e stretto, chiuso nel lato superiore e aperto in quello inferiore, un forte vento soffiante da sud-est (scirocco), lungo l'asse longitudinale, produce un accumulo d'acqua verso l'estremità chiusa. Il fenomeno viene favorito dalla lunga zona d'azione disponibile per il vento ("fetch") ed è uteriormente amplificato a causa dei bassi fondali della parte settentrionale dell'Adriatico". Il contributo dovuto al vento può superare anche il metro e provocare da solo fenomeni di inondazione. l'ISMAR spiega che "Le scale di variabilità temporale del livello marino possono essere distinte in funzione dei fattori che le determinano. Le variazioni su scale temporali fino all’interannuale sono causate dalla meteorologia, soprattutto vento e pressione atmosferica. Dalla scala interannuale in su sono importanti inoltre le variazioni delle caratteristiche termoaline dell’oceano". Secondo l'ISPRA: Il fenomeno dell’innalzamento del livello medio del mare relativo a Venezia è costituito principalmente dalla somma di due componenti fondamentali: la subsidenza e l’eustatismo. La costa occidentale del Nord Adriatico è caratterizzata dal fenomeno naturale della compattazione dei suoli (subsidenza). Tale fenomeno è più evidente nel delta del Po, essendo un'area geologicamente molto giovane. L'intervento umano ha in alcuni casi notevolmente accelerato questo fenomeno, specialmente in occasione di sistematiche estrazioni di fluidi dal sottosuolo: la minore pressione esercitata all’interno degli strati inferiori del terreno ne favorisce la compattazione, provocando così una perdita relativa di altezza nei confronti del medio mare. Quindi occorre considerare anche l'eustatismo, ovvero l'innalzamento del livello medio del mare dovuto ai fenomeni di riscaldamento globale del pianeta. Lo studio "Natural Variability and Vertical Land Motion Contributions in the Mediterranean Sea-Level Records over the Last Two Centuries and Projections for 2100" pubblicato nel Luglio del 2019 afferma: "Combinando la variabilità naturale a livello del mare (SLNV) e il movimento terrestre verticale (VLM) con le proiezioni regionali IPCC-AR5 dei dati climatici (Rappresentative Concentration Pathways (RCP) 2.6 e 8.5), I ricercatori hanno fornito le proiezioni relative di innalzamento del livello del mare entro il 2100. I risultati mostrano che gli effetti combinati di SLNV e VLM non sono trascurabili, contribuendo tra il 15% e il 65% alla variabilità del livello del mare, QUINDI CAUSE NATURALI, IL 35% é di natura antropica. I livelli del mare previsti per 2100 nello scenario RCP8.5 sono compresi tra 475 ± 203 (Bakar) e 818 ± 250 mm (Venezia). Nella laguna di Venezia, la subsidenza media del suolo a 3,3 ± 0,85 mm a − 1 (localmente fino a 8,45 ± 1,69 mm a − 1) sta guidando l'accelerazione locale dell'innalzamento del livello del mare". L'AGI  conclude che questo dato è in linea con una ricerca scientifica pubblicata nel 2017 da 15 ricercatori italiani – tra cui Sannino – che utilizzava però dati meno aggiornati. Anche la Regione Veneto ha pubblicato una serie di dati per dimostrare la gravità della situazione. Nel capitolo 6 del Rapporto statistico regionale 2018 – dedicato ai cambiamenti climatici – si legge infatti che tra il 1872 e il 2016, il livello del mare a Venezia ha registrato un tasso di crescita medio pari a 2,5 millimetri l’anno: oltre 25 centimetri in 100 anni. "Tale tasso di crescita – scrive il Rapporto – risulta significativamente più elevato rispetto a quello medio globale".

sabato 14 settembre 2019

Adria maggiore, l'antico Continente che giace sotto l'attuale Europa

Ecco come appariva il Continente Adria Maggiore circa 150 milioni di anni fa. Riferimento scientifico: Van Hinsbergen et al., (2019)
Il Corno Grande del Gran Sasso come lo osserviamo attualmente. Uno dei pochi affioramenti di Adria Maggiore. Foto tratta da @Majambiente.
Un gruppo di ricercatori ha ricostruito la storia geologica, lunga quasi un quarto di miliardo di anni, di una massa terrestre scomparsa che ora giace coperta, non sotto un oceano da qualche parte sulla Terra, ma al di sotto dell'Europa meridionale. L'analisi degli studiosi é rappresentata da "un'enorme mole di lavoro", afferma Laurent Jolivet, un geologo dell'Università della Sorbona di Parigi che non è stato coinvolto nel nuovo studio. Sebbene la storia tettonica della massa terrestre fosse nota da alcuni decenni, dice, "la quantità di dettagli mostrati nella ricostruzione sistematica non ha precedenti". Gli unici resti visibili del Continente - noto come Adria Maggiore - sono calcari e altre rocce presenti nelle catene montuose dell'Europa meridionale. Gli scienziati ritengono che queste rocce si siano formate da sedimenti marini e solo successivamente siano state levigate dalla superficie della massa terrestre e sollevate attraverso la collisione delle placche tettoniche. Eppure le dimensioni, la forma e la storia della massa terrestre originale - molte delle quali si trovano sotto i mari tropicali poco profondi per milioni di anni - sono state sempre difficili da ricostruire. Per cominciare, la Grande Adria ebbe una storia violenta e complicata, osserva Douwe van Hinsbergen, geologo dell'Università di Utrecht, nei Paesi Bassi. Gli scienziato pensano che divenne un'unità separata quando si staccò dal supercontinente meridionale del Gondwana (che comprendeva oggi Africa, Sud America, Australia, Antartide, subcontinente indiano e penisola arabica) circa 240 milioni di anni fa e iniziò a spostarsi verso nord. Circa 140 milioni di anni fa, era una massa terrestre delle dimensioni della Groenlandia, in gran parte sommersa da un mare tropicale, dove confluivano i sedimenti che lentamente si trasformarono in roccia. Quindi, quando si scontrò con quella che oggi è l'Europa tra 100 milioni e 120 milioni di anni fa, si frantumò e venne spinta sotto quel continente. Solo una frazione delle rocce della Grande Adria, rimossa dalla collisione, è rimasta osservabile sulla superficie terrestre. Un'altra complicazione è dovuta al fatto che le rocce della Grande Adria sono disperse in oltre 30 paesi, in una fascia che va dalla Spagna all'Iran. Quindi, come le rocce stesse, i dati sono stati dispersi e quindi difficili da raccogliere, afferma van Hinsbergen. E infine, osserva, fino all'ultimo decennio circa, i geologi non hanno avuto il sofisticato software necessario per eseguire tali ricostruzioni. "La regione del Mediterraneo è semplicemente un disastro geologico", afferma. "Tutto è curvo, spaccato e impilato". Nel nuovo studio, Van Hinsbergen e i suoi colleghi hanno trascorso più di 10 anni a raccogliere informazioni sull'età dei campioni di roccia che si ritiene provengano dalla Grande Adria, nonché sulla direzione di eventuali campi magnetici intrappolati in essi. Ciò ha permesso ai ricercatori di identificare non solo quando, ma dove, si siano formate le rocce. Piuttosto che limitarsi a spostarsi a nord senza cambiare orientamento, la Grande Adria ruotava in senso antiorario mentre spingeva e piallava le altre placche tettoniche. Sebbene la collisione tettonica avvenisse a una velocità non superiore ai 3-4 centimetri all'anno, l'inesorabile processo frantumò la crosta spessa 100 chilometri e la spinse in profondità all'interno del mantello terrestre, afferma Van Hinsbergen. Lo studio non è l'unica prova della Grande Adria come continente perduto. Altri ricercatori che usano le onde sismiche per generare immagini computerizzate simili alla tomografia hanno creato una sorta di "atlante degli inferi", un 'cimitero' di placche di crosta terrestre che sono affondate nel mantello. Questa ricerca mostra che alcune parti della Grande Adria ora giacciono fino a 1500 chilometri sotto la superficie del nostro Pianeta. Riferimento articolo: Geologists uncover history of lost continent buried beneath Europe.

mercoledì 2 maggio 2018

L'attività vulcanica e elevati livelli di mercurio alla base dell'estinzione di massa dell'evento Kellwasser

Schema dell'evento Kellwasser (F-F) e della conseguente crisi suddivisa in due fasi (basato su Gereke e Schindler, 2012), e relativi eventi vulcanici dopo Winter (2015, la sua figura 2). B: Ubicazioni dei siti F-F studiati per abbondanza di Hg, rispetto alla prossimità inferenziale a grandi province ignee di grandi dimensioni (LIP, dopo Kravchinsky, 2012; Ernst, 2014; paleogeografia tardo-devoniana dopo Golonka et al., 1994). Immagine elaborata da Racki et al., (2018).
L'ultima estinzione di massa che si verificò nel Devoniano, circa 370 milioni di anni fa, denominata evento Kellwasser, che sterminò l'80 per cento delle specie, é stata causata da un imponente e duratura attività vulcanica associata ad elevate immissione di mercurio nella troposfera. Il gruppo ha analizzato le rocce provenienti dal Marocco, dalla Germania e dalla Russia settentrionale, tutte risalenti allo stesso breve intervallo geologico risalente a 372 milioni di anni fa, poco prima del limite Frasniano-Famenario. Oltre a diffondersi in due continenti, le rocce variavano dallo scisto nero, allo scisto grigio e al calcare, con uno spessore che da pochi centimetri poteva raggiungere alcuni metri. Eppure, tutti condividevano una caratteristica in comune particolarmente sorprendente: un picco di mercurio più elavato di centinaia di volte rispetto al normale. In altre estinzioni di massa, ingenti valori di mercurio, sono stati strettamente connessi con episodi vulcanici di grande intensità. In effetti, sottolinea Racki, il mercurio è diventato per le catastrofi terrestri ciò che l'iridio è per le estinzioni causate da impatti asteroidali o meteoritici. E conclude che: "Il mercurio come impronta geochimica del vulcanismo appare decisivo nella nuova fase sugli studi sull'estinzioni di massa". Riferimento scientifico: Mercury Rising: New evidence that volcanism triggered the late Devonian extinction - The Geological Society of America.

domenica 15 aprile 2018

Nuove prove dell'alluvione Zancleana nel Bacino del Mediterraneo

Stratigrafia sismica del Bacino Occidentale Ionico, estratto da
 Micallef A. et al., (2018).

Aaron Micallef dell’Università di Malta e Angelo Camerlenghi dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale - OGS hanno scoperto una quantità considerevole di sedimenti che sono stati erosi e trasportati da un alluvione catastrofica avvenuta 5,33 milioni di anni fa. Prima di questo studio, si ipotizzava che l'alluvione zancleana avesse nuovamente riempito il Bacino del Mediterraneo determinando la fine della Crisi di Salinità del Mar Mediterraneo. Ora, esistono prove che ovviamente dovranno essere confermate da ulteriori indagini. La crisi di salinità messiniana (MSC), che rappresenta il cambiamento ambientale più improvviso su scala globale dalla fine del Cretaceo, è stata ampiamente associata alla quasi totale evaporazione del Mar Mediterraneo. Rimane una questione aperta e importante, il modo in cui le normali condizioni marine sono state bruscamente ripristinate alla fine della MSC. In questo studio Micallef A. et al., (2018), pubblicato su Scientific Reports,  sono stati utilizzati i dati geologici e geofisici per identificare un corpo sedimentario estensivo, sepolto e caotico, depositatosi nel bacino ionico occidentale dopo i massicci sali messiniani e prima della sequenza sedimentaria marina aperta del Plio-Quaternario. I ricercatori dimostrano che questo corpo è coerente con il passaggio di un'alluvione catastrofica avvenuta nel Bacino del Mediterraneo attraverso un passaggio siciliano sud-orientale. I risultati dello studio forniscono le prove che il corpo sedimentario identificato rappresenta il giacimento più ampio della più estesa e intensa alluvione verificatasi sulla Terra. La crisi di salinità del messiniano (MSC) è stato un evento paleo-oceanografico eccezionale che ha interessato la regione mediterranea da 5,97 a 5,33 Ma. Una temporanea restrizione dello Stretto di Gibilterra e l'espansione della Calotta polare Antartica hanno indotto uno squilibrio tra l'evaporazione e la quantità di acqua marina, trasformando il Mar Mediterraneo in un gigantesco lago ipersalino e determinando la deposizione di sequenze di sali spessa chilometri. Considerando il campionamento delle sequenze sedimentarie della MSC durante il Deep Sea Drilling Project (DSDP) negli anni '70, l'ipotesi dell'alluvione Zancleana, è stata considerata uno scenario plausibile per la cessazione della MSC. Tuttavia, la presenza di depositi lacustri salmastri in cima ai sali messiniani è stata utilizzata per mettere in discussione questa ipotesi, suggerendo invece una fuoriuscita di acqua di Paratethyan (ex Mar Nero) seguita da un afflusso atlantico una volta riempito il bacino del Mediterraneo. Secondo la catastrofica teoria delle inondazioni, i rilievi topografici del bacino del Mediterraneo hanno subito un'erosione estesa che dovrebbe essere identificabile nei sedimenti più a valle. Tuttavia, le prove per la deposizione del materiale eroso sono state finora elusive.