Concentrazioni di PM10 dal 2005 al 2008, Fonte: EEA. |
Può esistere una correlazione tra la diffusione dell’infezione da
SARS-CoV2 e le aree ad elevato livello di inquinamento atmosferico? La
domanda è più che mai attuale e tuttora al vaglio di diverse ricerche
scientifiche. La necessità di portare maggiore chiarezza in tale ambito
ha infatti sollecitato diversi gruppi di studiosi a collaborare per
esaminare il problema e le possibili correlazioni.
Premesso che
si tratta di una infezione virale sottoposta a meccanismi di
trasmissione sicuramente diversi da quelli generalmente studiati nel
settore dell’inquinamento atmosferico, in Italia l’ipotesi di
un’associazione è stata avanzata in virtù del fatto che aree come la
Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna, dove il virus ha presentato la
maggiore diffusione, fanno registrare generalmente le maggiori
concentrazioni degli inquinanti atmosferici misurati e controllati
secondo quanto indicato e prescritto dalla legislazione di settore (DLgs
155/2010).
Tuttavia, se è vero che la diffusione del virus si è
presentata attraverso focolai circoscritti all’interno di zone della
Pianura Padana sottoposte a valori di inquinamento atmosferico elevati e
piuttosto omogenei, è anche vero che altre aree a forte inquinamento
atmosferico, anche se prossime, sono rimaste inizialmente escluse e
interessate, solo successivamente, con minor forza dalla contaminazione
del virus. Si osserva inoltre, che a seguito delle disposizioni
governative, la ridotta mobilità delle persone e la chiusura di molte
attività produttive hanno portato ad una progressiva e significativa
riduzione dei livelli di inquinamento dell’aria (PM10, PM2,5, NO2,
benzene). Va infine notato che le aree dove il virus ha evidenziato il
suo più elevato impatto, sono le aree sia ad elevata densità di
popolazione sia a più alta produttività del Paese. In questi territori
sono presenti il maggior numero di aziende con vocazione e crescita
internazionale che hanno continui e frequenti rapporti con paesi
stranieri (in particolare Stati Uniti, Cina e Federazione Russa), con
conseguente alta mobilità dei lavoratori. Infatti, molti approfondimenti
epidemiologici in corso evidenziano proprio la componente legata ai
rapporti di lavoro internazionali con il conseguente contagio diretto
tra persone, oltre all’iniziale diffusione del contagio in strutture
sanitarie (ospedaliere e RSA) che ha agito quale forte moltiplicatore
dell’infezione, quando non si aveva notizia dell’avvenuto ingresso del
virus sul territorio italiano.
In sintesi, la complessità del
fenomeno, insieme alla parziale conoscenza di alcuni fattori che possono
giocare o aver giocato un ruolo nella trasmissione e diffusione
dell’infezione SARS-CoV2, rendono al momento molto incerta una
valutazione di associazione diretta tra elevati livelli di inquinamento
atmosferico e la diffusione dell’epidemia COVID-19, o del suo ruolo di
amplificazione dell’infezione. Uno studio potrà essere svolto con il
corretto approccio scientifico, solo quando l’epidemia e l’emergenza
saranno terminate e potranno essere disponibili tutte le conoscenze
sulle variabili/fattori utili ad analizzare il fenomeno, effettuando
anche un’analisi comparativa su scala più ampia quale quella europea e
internazionale. In tale contesto, un elemento di sicuro approfondimento
potrà essere rappresentato dal ruolo dell’ambiente indoor/outdoor nel
determinare lo stato di salute della popolazione, in particolare quella
residente nelle aree urbane, e come questo possa aver influito sulla
gravità degli esiti dell’infezione da SARS-CoV2. L’analisi dei decessi
su un ampio campione di casi ha mostrato come la mortalità per COVID-19
sia stata elevata in soggetti che già presentavano una o più patologie
(malattie respiratorie, cardiocircolatorie, obesità, diabete, malattie
renali, ecc.), sulle quali la qualità ambientale indoor e outdoor e gli
stili di vita, in ambiente urbano, possono aver avuto un ruolo.
Lo
studio condotto dall’Università di Harvard è di sicuro interesse, ma si
basa su indicazioni parziali e presenta ampie incertezze come gli
autori stessi descrivono (come ad esempio, la modalità di conteggio dei
decessi per COVID-19 e la stima delle concentrazioni di PM2,5 sul
territorio degli USA basata sull’applicazione di una modellistica che
necessita di aggiustamenti perché legata alla distribuzione spaziale
delle postazioni di misura dell’inquinamento atmosferico).
Una posizione, questa, condivisa da gran parte della comunità scientifica italiana, come espresso nella posizione dello Steering Committee del progetto CCM RIAS.
La letteratura scientifica in materia
L’esposizione
ad inquinamento atmosferico indoor e outdoor ed in particolare al
materiale particellare PM (PM10, PM2,5), agli ossidi di azoto (NO e
NO2), nonché all’ozono (O3), può determinare un insieme di effetti
sanitari avversi ampiamente descritti nella letteratura scientifica
accreditata. La Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) stima nel
2016, globalmente, circa 7 milioni di morti premature all’anno, con il
91% di queste a carico dei paesi a basso-medio reddito e relative alle
popolazioni delle aree del sud asiatico, dell’area sub sahariana e
dell’America latina. Per la popolazione europea sono state stimate circa
550.000 morti premature.
Inoltre, la WHO ha dedicato una
particolare attenzione agli effetti sanitari dovuti ai livelli di
inquinamento degli ambienti indoor, determinati principalmente dall’uso
di combustibili di bassa qualità per il riscaldamento degli ambienti e
la preparazione dei cibi, ma anche all’uso di sostanze chimiche per
l’igiene personale e la pulizia degli ambienti, sostanze per la
profumazione indoor, pitture, vernici, ecc. Questa componente riveste un
ruolo rilevante se si considera che la popolazione trascorre la maggior
parte del tempo in ambienti indoor (abitazione, scuola, lavoro).
Gli effetti sulla salute
A
livello globale, i principali effetti sanitari correlati
all’inquinamento dell’aria indoor e outdoor sono relativi all’aumento
delle Malattie non trasmissibili-Non Communicable Deseases (NCD), che
includono principalmente le malattie croniche del sistema
cardiocircolatorio quali le malattie ischemiche del cuore (infarto
miocardico, ictus cerebrale), quelle dell’apparato respiratorio, come
l’asma, la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) che porta ad una
maggiore predisposizione alle infezioni respiratorie, e il cancro del
polmone per esposizioni sul lungo periodo. Più recentemente
all’esposizione cronica all’inquinamento atmosferico e al PM2,5 in
particolare si associano patologie quali il diabete, un ritardo nello
sviluppo neurologico dei bambini così come effetti neurologici
degenerativi nella popolazione adulta/anziana. Gli effetti a breve
termine sono supportati da molti studi e riguardano una ridotta capacità
polmonare, aggravamento e complicanze dell’asma, e, per l’esposizione
durante la gestazione, un basso peso alla nascita del bambino.
I più esposti
L’ampia
letteratura scientifica si è anche dedicata ad indagare quale sia la
popolazione più suscettibile agli effetti dell’esposizione
all’inquinamento atmosferico indoor e outdoor. Le caratteristiche di
suscettibilità includono principalmente una predisposizione genetica,
fattori socioeconomici, età, durata e intensità dell’esposizione, la
presenza di malattie preesistenti, come asma, BPCO e fibrosi cistica.
Molti studi evidenziano che i bambini, e più in generale la popolazione
di età inferiore ai 14 anni, è la più suscettibile agli effetti sanitari
acuti delle infezioni alle basse vie respiratorie.
Le sostanze inquinanti e le sorgenti di emissione
L’Agenzia
Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) nel 2013 ha definito
l’inquinamento atmosferico, il PM in particolare, cancerogeno di classe 1
per l’uomo. Il PM, sia quello emesso direttamente nell’aria, che quello
prodotto durante i processi di conversione gas-particelle, è una
miscela complessa di inquinanti organici e inorganici, costituito dal
materiale carbonioso derivante dai diversi processi di combustione che
lo generano (negli ambienti ad intensa urbanizzazione il PM deriva
essenzialmente dai veicoli a motore e dagli impianti per la produzione
di energia), ma anche da un insieme di altre sostanze particolarmente
tossiche per l’uomo (microinquinanti inorganici e organici come:
metalli, idrocarburi policiclici aromatici, diossine). La composizione
quali/quantitativa del PM varia quindi molto in funzione della tipologia
di sorgenti di emissione che lo producono.
Gli effetti sulla
salute che ne derivano dipendono perciò non solo dai livelli di
concentrazione a cui le popolazioni sono esposte ma anche da molti altri
fattori, che includono le sorgenti, le trasformazioni fisiche e
chimiche di precursori, il clima, e la specifica situazione locale
(orografica e topografica) delle aree urbane e non che influenzano la
“qualità” e la composizione del PM.
Le città stanno peggio
Vivere
in aree urbane dove l’inquinamento atmosferico è elevato incide sullo
stato di salute generale della popolazione, come dimostrano gli studi di
numerosi gruppi di ricercatori scientifici nazionali e internazionali.
L’Agenzia
Ambientale Europea (EEA) ogni anno produce un report sul Burden of
Desease dell’inquinamento atmosferico in Europa in base ai livelli di
concentrazione dei singoli inquinanti misurati (PM2,5, NO2 e O3) dalle
diverse centraline di monitoraggio dell’aria presenti nei diversi paesi
(concentrazioni variabili anche in funzione delle condizioni
meteorologiche e del numero e della qualità di funzionalità delle
centraline). Nel report 2019 l’EEA ha stimato per l’Italia circa 60.000
morti premature per esposizione a PM2,5.
A cura di Maria Eleonora Soggiu e Gaetano Settimo del Dip. Ambiente e salute dell’ISS
ISS, 29 aprile 2020.
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